Sono conscio di non essere originale affermando che nel mondo è in atto una profonda rivoluzione.
Anzi, sono sicuro che in molti questa affermazione solleverà un interrogativo: quale?
Perché, in effetti, di rivoluzioni ne stiamo vivendo più di una.
Quella a cui mi riferisco, visto il mio ambito di attività, è quella microelettronica, innescata dall’avvento del microprocessore e dalla diffusione di massa dell’informatica, e che nel giro di pochi lustri ha trasformato radicalmente il mondo.
Come tutte le rivoluzioni, anche questa è difficile da riconoscere. Non tutti sono consci di stare vivendola, ed è per questo complessa da gestire in corso d’opera. E’ però innegabile che, come è stato per tutte quelle che l’hanno preceduta, e più notabilmente quella industriale, sono già evidenti gli effetti di obsolescenza e di declino delle realtà che non sono in grado di riconoscerla ed aggiornarsi. Così come è sotto gli occhi di tutti la fortuna di chi, con lo sguardo proteso al domani, è in grado invece di scorgerne in anticipo le implicazioni e di sfruttarle a proprio favore.
Gli storici fanno coincidere l’inizio di questo periodo di trasformazione sociale con la produzione del primo microprocessore monolitico (single-chip) – l’Intel 4004 – messo a punto dal gruppo di Federico Faggin agli inizi degli anni ’70. Faggin, per chi non lo conoscesse, è nato e cresciuto in Italia. Prima di approdare in Intel era stato dipendente di Olivetti prima, e di SGS-Ates – altra azienda italiana del settore microelettronico – poi. Dopo avere inventato il microprocessore fondò, fra l’altro, la Synaptics, l’azienda che ha realizzato i primi touchpad e touchscreen. E’ una delle tanti grandi menti nostrane che ha dovuto emigrare per affermarsi.
In quegli anni, però, il gap tecnologico fra il nostro paese ed il resto del mondo era pressoché nullo. Anzi, non erano pochi gli aspetti tecnologici in cui eravamo sicuramente all’avanguardia. Quello su cui peccavamo, oggettivamente, era il contorno. Mentre le nostre punte di eccellenza di livello mondiale si staccavano su un substrato pressoché inesistente, altri paesi erano riusciti a creare un humus fertile e dinamico, su cui era relativamente semplice fare attecchire quanto di più nuovo provasse a crescere.
Il microprocessore era una di queste novità che agli inizi fu compresa da pochi. Al di là di personaggi profetici come Gordon Moore, che nel 1965 lanciò quella profezia che è tutt’ora nota (sia pur un po’ rimaneggiata) come legge di Moore, le potenzialità del microprocessore divennero immediatamente evidenti soprattutto in un ambito molto particolare: quello degli sperimentatori.
Gli sperimentatori hanno avuto un ruolo molto importante nelle prime fasi della rivoluzione microelettronica. Anche se la cosa non è particolarmente nota, la storia del personal computer nasce in larga parte proprio dai veri appassionati sperimentatori. Il gruppo più famoso è sicuramente quello dell’Homebrew Computer Club di Stanford, da cui sono usciti sia Steve Jobs che Steve Wozniac, fondatori di Apple, ma anche Adam Osborne, che diede vita all’azienda che produsse il primo computer portatile. Fu proprio in uno degli incontri di HCC, che si tenevano all’univesità di Stanford, che fu presentato il mitico Apple I.
In realtà in quegli anni in Italia non eravamo poi così distanti: mentre Jobs & Wozniac pensavano al loro Apple I, nella nostra Toscana Gianni Becattini e Claudio Boarino lanciano dalle pagine della rivista per sperimentatori CQ Elettronica il progetto del Child 8, un microcomputer basato sul microprocessore Fairchild F8, assemblabile con relativa facilità dagli appassionati. Per inciso, anche in Italia da qual progetto nacque una azienda, la General Processor, che non ebbe le sorti felici di quelle made in USA.
Se in altre nazioni è stata rapidamente compresa l’importanza delle applicazioni dei microprocessori, in Italia abbiamo avuto invece un marcato disinteresse verso l’intero comparto. Il gap con le altre nazioni si è andato lentamente allargando sino ad un punto di discontinuità: l’esplosione di internet.
Anche qui, il fenomeno internet è stato poco capito e decisamente sottovalutato. Non siamo stati pronti ad affrontare il punto di svolta: il passaggio della connessione ad internet attraverso i modem sulle linee voce, ai sistemi di connessione digitale (come le varie DSL o i collegamenti senza filo). Mentre altre nazioni hanno investito in risorse e cultura, noi abbiamo lasciato gestire la vicenda al mercato.
E’ stato un grande errore. La storia ci insegna che, sin dagli albori della civiltà, il benessere ed il progresso hanno seguito le vie di comunicazione. In quegli anni era evidente che si andavano delineando nuove strade – per il trasporto, questa volta, di informazione e conoscenza. Le zone che potevano beneficiare grandemente delle nuove autostrade dell’informazione erano proprio quelle più svantaggiate dal punto di vista economico, e quindi quelle meno interessanti sotto il profilo commerciale.
E’ l’approccio che ha portato al cosiddetto digital divide.
Continua a leggere QUI.