Nei miei post ho più volte sottolineato l’impatto che internet delle cose avrà nella vita del prossimo futuro. In questa fase stiamo assistendo ad una vera invasione di una miriade dispositivi: piccoli, economici ed ubiqui.
Oggi siamo ancora in una fase di sperimentazione, ma la diffusione di dispositivi come il Micro:Bit della BBC, di cui parlavo ieri, o di sistemi come l’Omega Onion, un picocomputer linux completo di wifi, interfacciabile ‘a la arduino’, e dal costo di circa 20€, è una indicazione più che chiara della direzione in cui ci stiamo muovendo.
Come ho più volte detto, l’innovazione tecnologica di questi dispositivi è costituita dalla capacità autonoma di interconnettersi fra di loro e di scambiarsi dati in maniera del tutto trasparente a noi utilizzatori. Proprio per questo è denominata tecnicamente M2M (machine to machine, cioé da macchina a macchina).
Se oggi siamo ancora in una fase che sta uscendo dalla sperimentazione di laboratorio, per passare ad un impiego ancora limitato da parte di appassionati ed hobbisti. L’impatto reale sarà visibile quando apparati di largo consumo, collegabili direttamente ad internet, saranno comunemente disponibili nei negozi di elettronica di tutto il mondo.
Questo scenario ha però al momento un ostacolo molto grosso sul suo percorso: l’attuale tecnologia di internet.
Noi tutti utilizziamo oramai utilizziamo internet quotidianamente, ma ci siamo mai chiesti come funziona, e come è possibile che i dispositivi più disparati siano in grado di scambiarsi dati l’un l’altro?
Perché due entità di internet possano colloquiare si utilizza una procedura analoga a quella utilizzata per scambiare messaggi fra due capi di stato che parlino lingue diverse.
Una comunicazione, originata da uno dei capi di stato, passerà prima per il suo staff per una analisi, poi attraverso un traduttore, per poi essere consegnata agli uffici di segreteria che provvederanno a trasferirla alla controparte utilizzando uno dei tanti canali di comunicazione disponibili. Dall’altra parte, una volta consegnata, la comunicazione seguirà la trafila inversa. Il risultato finale sarà effettivamente un colloquio diretto fra Obama e Putin, ognuno dei quali si esprimerà nella sua lingua, grazie al lavoro nascosto degli strati inferiori.
Internet funziona su un principio analogo, si chiama ISO/OSI, e proprio la sua strutturazione a (sette) strati ha reso possibile che tanti dispositivi e software diversi potessero comunicare senza apparenti problemi. Ogni strato, o livello, opera seguendo delle regole ben precise, chiamate protocolli. Questo consente che, come in questo esempio, il messaggio possa essere fisicamente scambiato con metodi diversi (fax, telefono, email, o altro) senza incidere sulla comunicazione dei capi di stato.
Ma quale è il grosso problema che bisogna gestire? che, strano a dirsi, la rete sta esaurendo i numeri di telefono!
Ogni computer connesso ad internet è infatti identificato univocamente da un numero, chiamato indirizzo IP. IP è l’acronimo di Protocollo Internet, che costituisce la base di interscambio fra i computer connessi alla rete. Quello più diffuso che usiamo oggi, IPv4, è stato definito nel lontano 1981, quando nessuno, nemmeno il più immaginifico autore di fantascienza, avrebbe mai potuto pensare un mondo come quello attuale. All’epoca ogni bit di informazione era enormemente più prezioso di quanto lo possa essere oggi, ed i suoi autori immaginarono che un indirizzo composto da 32 bit fosse più che sufficiente per gestire ogni possibile sviluppo. La previsione è stata invece molto fallace, e la disponibilità di indirizzi è oramai ridotta al lumicino: IANA ha infatti assegnato gli ultimi blocchi disponibili nel lontano 2011.
Ovviamente la comunità di internet nel frattempo non è stata con le mani in mano. Grazie alla costruzione a strati delle tecnologie di internet è relativamente semplice rimpiazzarne uno con un altro tecnologicamente aggiornato, senza alterare funzionalmente il tutto. E’ stato quindi definito un nuovo protocollo, IPv6, per superare le limitazioni del precedente. Lo spazio di indirizzi, che questa volta è di ben 128 bit, consente di indirizzare oltre 6 miliardi di dispositivi per ogni metro quadrato della superficie terrestre. Ma oltre a risolvere il problema dell’indirizzamento, il nuovo protocollo elimina anche altre limitazioni tecnologiche dell’IPv4, e prevede anche un meccanismo di interoperabilità che consente alla rete IPv6 di accedere a risorse in IPv4.
IPv6 è operativo da oltre dieci anni, e molte realtà – compresi i mie blog – sono raggiungibili con entrambe le tecnologie. Ancora oggi, però, la stragrande maggioranza del traffico internet avviene utilizzando il vecchio protocollo IP. Secondo le statistiche di Google, solo circa il 7% del traffico globale utilizza IPv6, altri osservatori sono ben più pessimistici.
Fino ad ora IPv4 è stato utilizzato senza grossi problemi utilizzando un meccanismo di condivisione dell’accesso: si utilizza un solo ip pubblico per consentire l’accesso di un largo numero di dispositivi. E’ un meccanismo che funziona per un approccio tradizionale ad internet, come navigazione, chat o email, ma è estremamente limitante per le applicazioni M2M di internet delle cose. Per consentire uno sviluppo massivo di internet delle cose è quindi indispensabile procedere rapidamente sull’inevitabile strada dell’aggiornamento tecnologico.
Il passaggio ad IPv6 è però estremamente lento. E’ comprensibile che le resistenze vengano dai fornitori di servizio, che devono potenzialmente provvedere non solo ad aggiornare le infrastrutture di rete, ma anche quelle degli utenti: se i sistemi operativi sono da tempo pronti, la stragrande maggioranza dei router presenti nelle nostre case non è, infatti, in grado di utilizzare IPv6.
Non è altrettanto comprensibile il fatto che, in Italia, non siano IPv6 ready larga parte dei servizi pubblci: www.governo.it, www.inps.it, www.rai.it, persino il sito dell’Agenzia per l’Italia Digitale, www.agid.gov.it, non ha un indirizzo IPv6 (!!!).
Il 6 giugno del 2012 Internet Society ha promosso il giorno del lancio di IPv6 con lo slogan che il nuovo protocollo è oramai la norma, e riepilogandone i benefici in una esauriente infografica (in inglese). Forse può non sorprendere che il nostro paese sia addirittura fuori dalle classifiche, ma è inaccettabile che da noi la questione non si ponga nemmeno.
Non dimentichiamo questo piccolo aspetto quando discutiamo di innovazione.